È uscita il 21 settembre la miniserie in dieci episodi “Dahmer – Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer” e subito si è piazzata in vetta alle classifiche come sceneggiato più visto in ben 92 paesi compresa l’Italia.
La serie è stata ideata da Ryan Murphy, già autore delle fortunate American Horror Story e American Crime Story, e racconta la vita, dall’infanzia alla morte prematura, del serial killer Jeffrey Dahmer che dal 1978 al 1991 uccise in maniera molto macabra diciassette ragazzi.
Quel che salta subito all’occhio vedendo le puntate è l’impressionante interpretazione dell’attore protagonista, Evan Peters. La somiglianza fisica, non è molta ma Peters riesce veramente a farti empatizzare, nell’accezione più vera del termine, nel mostro, trasmette inquietudine e paura pur non facendo niente di particolare.

Dahmer era un assassino seriale necrofilo e cannibale che stordiva le sue vittime drogando le loro bibite e poi le uccideva quasi sempre strozzandole, ma non si limitava a questo, dopo averlo fatto abusava dei loro corpi e poi ne mangiava delle parti, conservando il resto in frigo, nel congelatore oppure in un barile da 200 litri di acido per distruggere le prove dei crimini commessi.
Dahmer è una figura che, da appassionata di true crime, ho sempre cercato di studiare: era omosessuale ma si vergognava di esserlo, era un timido patologico ma sapeva diventare molto furbo quando si trattava di non essere scoperto dalla polizia (che tra l’altro lo lasciò andare più volte nel corso degli anni), secondo me, inoltre, non era razzista come hanno pensato tanti, visto che colpiva quasi esclusivamente uomini di colore oppure asiatici, non era nemmeno un classista anche se le sue prede erano ragazzi poveri, vivendo in un quartiere degradato di Milwaukee, semplicemente sapeva chi far sparire evitando di trovarsi in situazioni che avrebbero potuto metterlo in difficoltà.

La serie è molto ben fatta, non parla solo del carnefice ma ci dà la possibilità di lanciare uno sguardo, totalmente inedito, in questo genere di docu-serie, anche sulla vita delle vittime, per esempio, l’episodio in cui si ripercorre la vita di Tony Hughes, trentunenne sordomuto dalla nascita e con belle speranze di diventare un modello, è molto drammatico e mi ha lasciato addosso una tristezza profonda.
Soprattutto mi ha colpito perché anche lo spietato killer esita prima di ucciderlo sadicamente, secondo me, Dahmer si era un po’ innamorato di Tony, forse per la prima volta in vita sua, ma poi, la paura dell’abbandono ha preso il sopravvento.
Come viene ampiamente spiegato, Jeffrey preferiva i corpi morti o i manichini alle persone vive, almeno quelli non l’avrebbero mai abbandonato come avevano fatto tutti, anche i suoi genitori.
La figura del padre mi ha spiazzato: ok, è l’unico che cerca di aiutare questo figlio vittima di alcolismo e incapace di tenersi un lavoro ma, poi, in realtà, se ne frega tanto che, dopo l’arresto di Jeff, si mette a scrivere un libro sull’accaduto e l’unica cosa che gli interessa è quella di diventare un autore da bestseller!
La madre poi è inqualificabile, infatti, l’infanzia di Jeffrey è stata costellata da litigi, abbandoni e soprusi: ricordiamoci una cosa, non tutti coloro che hanno avuto una brutta infanzia diventano serial killer ma è più facile diventarlo se la si è avuta.

La serie ha scatenato polemiche da parte delle famiglie delle vittime e anche in generale perché è stata considerata omofoba, razzista e indulgente verso l’assassino: da parte mia posso dire che sicuramente offre uno spaccato dell’America di quegli anni davvero altamente razzista e omofoba, però non mi sembra che non faccia emergere la colpevolezza di Dahmer, descrive in modo chiaro che il suo vissuto ha influito molto nel farlo diventare quello che tutti oggi conosciamo come il mostro di Milwaukee, un ragazzo solo, abbandonato da tutti, vittima delle sue fantasie e delle sue pulsioni, e forse se aiutato molte vite si sarebbero potute salvare. Nel complesso, la serie parte con il botto perché inizia subito con la rappresentazione dell’ultimo tentato omicidio e del terribile assassinio del ragazzo laotiano Konerak Sinthasomphone che non è stato sventato dalla polizia seppure ci fossero varie evidenze di reato, poi, con vari flashback torna indietro e ripercorre la storia completa. Non è una serie tv veloce e da binge watching perché le tematiche sono pesanti e il ritmo è molto lento, quindi, almeno per me, è stato davvero impossibile divorarla, però, offre un vero resoconto di quella che è stata la vita di questo Serial Killer, dei motivi che lo hanno spinto a uccidere e di come la società ha e sta rispondendo a un caso simile.
Da guardare!


Tra il libro e il film ho sempre preferito il libro, per questo cerco sempre di guardare serie tv con sceneggiatura originale. Più son truci e meglio è, perché l'unico modo per combattere il Male è attraverso la sua conoscenza. Se mi cercate, non mi troverete mai al cinema nelle sale dei film strappalacrime. Molto meglio gli horror e tanti, tanti pop corn!